La dottrina della giustificazione per fede

 

La salvezza secondo il pensiero biblico è associata a 5 concetti fondamentali:

 

1. La vittoria di Cristo che mediante la croce e la risurrezione ha vinto il peccato, la morte e il male. Tramite la fede i creden­ti possono partecipare a quella vittoria e appropriarsene.

2. Il cambiamento dello stato giuridico o giustificazione. Coloro che erano colpevoli sono in Cristo purificati dai loro peccati e giustificati agli occhi di Dio, cioè assolti dalla punizione e riconosciuti giusti dinanzi a Dio.

3. Il cambiamento nella relazione con Dio. Il peccato implica la separazione dell’uomo da Dio. “Dio ri­conciliava con sé il mondo per mezzo di Cristo” (ICorinzi 5:19). Coloro che sono lontani da Dio posso­no avvicinarsi a Lui mediante la morte di Cristo.

4. La liberazione o redenzione. Coloro che sono tenuti prigionieri dalle forze oppressive del male, del peccato e dalla paura della morte, possono esserne liberati dalla morte di Cristo. Come Cristo si li­berò dalla prigione della morte, allo stesso modo i credenti, per fede possono liberarsi dai lacci del peccato e tornare alla vita.

5. Il ristabilimento dell'integrità o salvezza in senso “medico”. Coloro che sono malati a causa del peccato possono essere risanati per mezzo della croce di Cristo. Mediante la croce e la risurrezione, Cristo può curare le nostre ferite e condurci alla guarigione, restituendoci alla pienez­za della nostra salute spirituale.

 

La “giustificazione per fede del peccatore” potrebbe essere inteso come l’elemento che dona unità a questo insieme di immagini.

Al tempo della Riforma la comprensione di cosa fosse la giustificazione del peccatore, assunse grande im­portanza, anche a causa del rinnovato interesse per gli scritti dell' apostolo Paolo (Lettera ai Romani e ai Galati). Anche alla base del programma riformatore di Lutero c'era la domanda: come può Dio giustificare uomini peccatori? Come può la grazia di Dio raggiungere degli uomini peccatori?

Possiamo cominciare a trattare questo problema stu­diando il significato della parola “grazia”. Con il termine “grazia”, si indica “l'im­meritato favore di Dio verso il peccatore”.

Durante il Medioevo la grazia era concepita come una “sostanza sovrannaturale” una specie di “fluido” che Dio infonde nell'anima per operare la redenzione[1].

Tale opinione si richiamava alla totale e invalicabile sepa­razione tra Dio il creatore e la creatura umana. A causa di tale separazione gli esseri umani non possono sperare di entrare in rapporto fruttuoso con Dio, la “grazia” colma tale separazione.

Martin Lutero fece la sua entrata sul palcoscenico della storia umana convinto che la chiesa del suo tempo aves­se frainteso l'evangelo, e dunque l'essenza del cristianesimo. La scoperta teologica di Lutero, spesso chiamata Turmerlebnis (esperienza della torre), e riguarda proprio la questione di sapere in che modo un peccatore può entrare in relazione con un Dio giusto.

Bisogna premettere che nel basso Me­dioevo “giustificazio­ne” ed il verbo “giustificare” vennero a significare: “entrare in una giusta relazione con Dio”, e forse anche “essere reso giusto agli occhi di Dio”. Le fonti dell' epoca mo­strano come tale domanda venisse formulata sempre più spesso all' alba del XVI° secolo. La chiesa del tempo non era del tutto in grado di dare una risposta chiara a questa domanda, da ol­tre mille anni, la chiesa non si era più pronunciata autorevolmente sull'ar­gomento. Il Concilio di Cartagine del 418, aveva discusso la questione ed il Secondo Concilio di Orange del 529, aveva enunciato delle proposte più particolareggiate (anche se di tendenza semi-pelagiana, ma i teologi medievali ignora­vano del tutto questo Concilio e le sue decisioni, esso venne riscoperto solo nel 1546). La dottrina della giustificazione pur essendo uno dei temi favoriti della discussione teologica del basso Medioevo, aveva la conseguen­za di mettere in circolazione le opinioni più disparate sul­la materia.

Nel 1511 Lutero fu chiamato alla cattedra di studi biblici dell’Università di Wittenberg. Egli tenne lezione su di­versi libri della Bibbia: i Salmi (1513-15), la Lettera di Paolo ai Romani (1515-­16), quella ai Galati (1516-17), la Lettera agli Ebrei (1517-18), per tor­nare una seconda volta a far lezione sui Salmi (1519-21).

Durante il corso sui Salmi (Dictata super Psalterium)

, per due o tre ore al­la settimana, durante un periodo di due anni, Lutero spiegò il significato dei Salmi a un uditorio. Egli affronta spesso la dottrina della giustificazione, ma dalla prospettiva del­la cosidetta “via moderna”: Dio ha stabilito con l'umanità un patto (pactum) per il quale è obbligato a giustificare chiunque soddisfi a certe condizioni minime: se l’uomo avesse compiuto ciò che è in proprio potere fare (quod in se est)  Dio non avrebbe negato la propria grazia. Pertanto chiunque si umilia davanti a Dio può aspettarsi di essere giustificato. Due citazioni dai Dictata super Psalterium serviranno a illustrare questo principio:

 

Siamo salvati per questa ragione: Dio ha fatto un testamento ed un pat­to con noi, cosicché chiunque crede ed è battezzato sarà salvato. In que­sto patto Dio è sincero e fedele ed è obbligato dalla promessa che ha fat­to.

 

“Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; per­ché chiunque chiede riceve, ecc.” (Matteo 7,7-8). Pertanto i dottori in teo­logia hanno ragione di dire che Dio dà senza fallo la sua grazia a chiun­que fa quel che può (quod in se est).

 

Il peccatore riconosce di aver bisogno della grazia e la chiede a Dio. Dio allora giustifica il pec­catore. In altre parole il peccatore prende l'iniziativa di invocare Dio, poichè il pec­catore è in grado di fare qualcosa. Il patto tra Dio e l'u­manità fa in modo che uno sforzo umano relativamente piccolo produca una ricompensa divina infinitamente più grande.

L'idea della “giustizia di Dio” ha un posto importante nel commento alla Lettera ai Romani (1515—1516). Ora egli intende la “giustizia di Dio” come “imparzialità di Dio”. Dio giudica gli individui in modo assolutamente imparziale. Se una persona soddisfatto tutte le con­dizioni essenziali per la giustificazione, è giustificata, altrimenti è condannata. Dio non mostra né indulgenza né favoritismi: giudica esclusi­vamente in base al merito. Dio è equo e giusto poiché dà a ciascun indivi­duo esattamente quel che si merita, nulla di più e nulla di meno[2].

Ma che cosa accade se il peccatore è in­capace di soddisfare alle condizioni poste da Dio? Pelagio e Gabriel Biel[3], che avevano lavora­to ambedue all’idea di “giustizia di Dio”, presumevano che la natura umana fosse capace di soddisfare le richiesta di Dio senza particolari difficoltà. Lutero però comincia a pensarla come Agostino, secondo il quale l'umanità è talmente invischiata nella propria peccaminosità da non potersene liberare da sola, ma solo attra­verso uno speciale intervento divino.

Lutero stesso sperimentava in modo drammatico di non riuscire a soddisfare le condizioni richieste per la propria salvezza. Per quello che egli sentiva di essere, Dio non poteva in alcun modo dargli la salvezza come equa ricompensa ma solo la condanna. L'idea della “giustizia di Dio” divenne quindi per Lutero una minaccia. Non poteva significare altro che dannazione e castigo. La promessa della giustificazione era senza dubbio reale, ma le condizioni che accompagna­vano la promessa la rendevano irrealizzabile. Era come se Dio avesse pro­messo un miliardo di lire a un cieco, a condizione che lo vedesse. Per i peccatori !'idea della “giustizia di Dio” non era una “buona notizia”, non implicando altro che dannazione. Il cre­scente pessimismo di Lutero riguardo alle capacità della natura umana lo condusse a disperare della propria salvezza, che sempre più gli appariva impossibile. “Come posso trovare un Dio che mi faccia grazia?”. Alla fine del 1514 sembra che Lutero non fosse in grado di dare una risposta a questo interrogativo. Allora accadde qualcosa[4]:

 

Ero stato infiammato dal desiderio di intendere bene un vocabolo ado­perato nella Epistola ai Romani, al capitolo primo, dove è detto: “La giu­stizia di Dio è rivelata nell'Evangelo”; poiché fino allora lo consideravo con terrore. Questa parola: “giustizia di Dio”, io la odiavo, perché la con­suetudine e l'uso che ne fanno abitualmente tutti i dottori mi avevano insegnato ad intenderla filosoficamente. Intendevo la giustizia che essi chiamano formale o attiva, quella per la quale Dio è giusto e punisce i colpevoli. Nonostante l'irreprensibilità della mia vita di monaco, mi sen­tivo peccatore davanti a Dio; la mia coscienza era estremamente inquie­ta, e non avevo alcuna certezza che Dio fosse placato dalle mie opere soddisfatorie. Perciò non amavo quel Dio giusto e vendicatore, anzi, lo odiavo [...]. Ero fuori di me, tanto era sconvolta la mia coscienza; e ri­muginavo senza tregua quel passo di Paolo, desiderando ardentemen­te sapere quello che Paolo aveva voluto dire. Finalmente, Dio ebbe compassione di me. Mentre meditavo giorno e not­te ed esaminavo la connessione di queste parole: “La giustizia di Dio è ri­velata nell'Evangelo come è scritto: “Il giusto vivrà per fede”“, incomin­ciai a comprendere che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, e per mezzo della quale il giusto vive, se ha fede. Il senso della fra­se è dunque questo: l'Evangelo ci rivela la giustizia di Dio, ma la giusti­zia passiva, per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifi­ca mediante la fede, come è scritto: “Il giusto vivrà per fede”. Subito mi sentii rinascere, e mi parve che si spalancassero per me le porte del para­diso. Da allora la Scrittura intera prese per me un significato nuovo. [...]. Quanto avevo odiato il termine: “giustizia di Dio”, altrettanto amavo ora, esaltavo quel dolcissimo vocabolo. Così quel passo di Paolo diven­ne per me la porta del paradiso[5].

 

All’inizio della propria ricerca Lutero conside­rava l'adempimento delle condizioni per la salvezza come un'opera uma­na, qualcosa che il peccatore deve eseguire, prima di poter essere giu­stificato. Leggendo Agostino si convince che la “giustizia di Dio” poteva solo configurarsi come una giustizia punitiva. Ma ecco dischiudersi un “nuovo” significato di quella frase, e cioè una giustizia che Dio dona al pec­catore a prescindere dall’azione di quest’ultimo. Dio stesso adempie le condizioni dando gratuitamente al peccatore ciò di cui questi ha bisogno per essere giustificato.

Supponiamo che siate in prigione e che vi si offra la libertà contro il pa­gamento di una forte multa. La promessa è reale: se potete soddisfare la condizione sarà rispettata. Pelagio e, sia pure in un modo leggermente di­verso, Gabriel Biel lavoravano sul presupposto, inizialmente condiviso da Lutero, che voi avete, custodito da qualche parte, il denaro necessario per pagare la multa. La vostra libertà vale molto di più e quindi vi si offre l'af­fare; e voi pagate la multa. Nessun problema..., se avete i soldi. Ma Lutero si avvicinò sempre più al punto di vista di Agostino, secondo cui l'umanità non possiede affatto le risorse necessarie per soddisfare quella condizione. Per tornare alla nostra analogia, Agostino e Lutero lavorano in base al pre­supposto che voi non avete il denaro necessario e che quindi la promessa di libertà ha ben poco significato per voi. Perciò, per Agostino e per Lute­ro, la buona notizia dell'evangelo è che il denaro necessario per pagare la scarcerazione vi è stato regalato. In altre parole, la condizione è stata adem­piuta per voi da qualcun altro. L'intuizione di Lutero, che egli descrive in quel brano autobiografico, è che il Dio dell' evangelo non è un giudice inflessibile che ricompensa indi­vidualmente ciascuno secondo i suoi meriti, ma un Dio misericordioso e benigno che dà ai peccatori la grazia come un dono. La “sco­perta” di Lutero è in realtà una “riappropriazione”, del­le intuizioni di Agostino. Ciò non significa che Lutero abbia semplicemen­te ripetuto l'insegnamento di Agostino; anzi, introduce degli elementi nuo­vi (l’insistenza per esempio sulla contraddizione tra la giustizia divina e l'idea umana di giustizia, che per Agostino invece erano complementari). Ma non è necessario essere perfettamente giusti per essere cristiani. li peccato nel credente, non è necessariamente segno di in­credulità né di una mancanza da parte di Dio, ma anzi sottolinea la continua necessità di affidare la propria persona all'amorevole sollecitudine di Dio. Lutero afferma pertanto che il credente «è contemporaneamente peccatore e giusto» (simul peccator et iustus): peccatore di fatto, ma giusto nella speran­za; peccatore nella realtà, ma giusto agli occhi di Dio e in virtù della sua promessa.

Filippo Melantone, amico e discepolo di Lutero, ne trasse la dottrina nota come «giustificazione foren­se». Mentre Agostino insegnava che nella giustificazione il peccatore è reso giusto, Melantone sosteneva che egli è considerato giusto o dichiarato giusto. Per Agostino la “giustizia giustificante” è impartita, per Melantone è imputata. Melantone stabilì una net­ta distinzione tra il fatto di essere dichiarato giusto e il processo attraverso il quale uno è reso giusto: il primo è chiamato «giustificazione» e il secon­do «santificazione» o «rigenerazione». Per Agostino si trattava semplice­mente di due aspetti dello stesso evento. Ma, secondo Melantone, Dio pro­nuncia il suo verdetto (che cioè il peccatore è giusto) nel tribunale celeste (in foro divino). Questo concetto giuridico della giustificazione spiega il ter­mine di «giustificazione forense», dal termine latino forum (che significa piazza del mercato o tribunale), il luogo cioè in cui si amministrava la giu­stizia nell'antica Roma.

L'importanza di questi sviluppi sta nel fatto che essi segnano una netta rottura con l'insegnamento che la chiesa aveva dato fino a quel momento. Dall' epoca di Agostino in poi si era inteso che la giustificazione compren­desse tanto il fatto di essere dichiarato giusto quanto il processo di essere reso giusto. L'idea melantoniana della giustificazione forense se ne distac­cava nettamente. Tutti i principali Riformatori l'adottarono in seguito ed essa venne a costituire d'allora in poi una delle differenze tipiche tra pro­testantesimo e cattolicesimo romano. Alla diversità d'opinione sul modo in cui il peccatore è giustificato si aggiungeva ora anche il disaccordo sul si­gnificato stesso della parola «giustificazione». Il Concilio di Trento, che si presentò come la risposta definitiva del cattolicesimo alla sfida della Rifor­ma, ribadì la teoria di Agostino su che cosa sia la giustificazione e criticò le opinioni di Melantone come miserevolmente inadeguate.

 

 



[1] S. ALZEGHY, Nova creatura: lo nozione della grazia nei commentari medievali di S. Pao­lo, Roma, 1956; J. AVER, Die Entwicklllng der Gnadenlehre in der Hochscholastik, 2 volI., Fri­burgo,1942-51.

[2] Alister E. MCGRATH, Luther's Theology oj the Cross: Martin Luther's Theological Breakthrollgh, Oxford, 1985, pp. 72-92; 100-28.

[3] Vedi Alister E. MCGRATH, Illstitia Dei: A History oJ the Christian Doctrine oJ Justifica­tion, 2 voI!., Cambridge, 1986, vol. 1 °, pp. 51-70.

[4] Molti studiosi chiamano quella scoperta Turmerlebnis, «espe­rienza della torre» in base a ricordi tardivi (e piuttosto confusi) di Lutero stesso, che lasciano pensare che quella scoperta abbia avuto luogo in una torre del convento degli agostiniani di Wittenberg (che in seguito diverrà la sua abitazione). Ma qualunque sia stato il fatto, il luogo e il momento, quell'esperienza cambiò totalmente l'atteggiamento di Lutero verso la vi­ta e finì per spingerlo in prima linea nella battaglia della Riforma.L'anno prima di morire (1545) Lutero scrisse la prefazione al primo volu­me dell'edizione completa dei suoi scritti latini; in essa descrive il modo in cui ruppe i ponti con la chiesa del suo tempo. Quella prefazione è scritta evi­dentemente per auto-presentarsi a dei lettori che probabilmente non sape­vano in che modo egli fosse giunto a sostenere le idee radicali di riforma che erano associate al suo nome. In questo «frammento autobiografico» (come è chiamato di solito) Lutero cerca di fornire ai suoi lettori delle informazioni retrospettive sul modo in cui è nata la sua vocazione di. Riformatore. Dopo qualche preliminare storico che giunge fino al 1519, egli fa riferimento alle proprie difficoltà personali con il problema della “giustizia di Dio”. In base a quanto risulta dai Dic­tata super Psalterium (1513-15) e dalle lezioni sulla Lettera ai Romani (1515­16), si può dire che il cambiamento fondamentale, che Lutero descriveva nel 1545, abbia avuto luogo durante il 15158. Al riguardo vi sono inevita­bilmente dei dubbi e delle incertezze, e per molte ragioni. Per esempio, èpossibile che nel 1545 i ricordi che Lutero aveva dei fatti accaduti tra il 1510 e il 1520 fossero un po' confusi. Dopotutto Lutero era una persona anziana quando scrisse quelle parole e i ricordi degli anziani non sono sempre at­tendibili. Soprattutto è possibile che Lutero abbia" condensato" le sue espe­rienze, riducendo a un breve periodo eventi che ebbero luogo in un tempo più lungo. In secondo luogo non è chiaro se il documento del 1545 impli­chi che la sua scoperta aveva avuto luogo nel 1519 o se si era conclusa in quell'anno. La frase latina usata da Lutero dà !'impressione che egli stia usando una sorta di tecnica a flashback. In altre parole, nel suo racconto dei fatti storici, Lutero riporta i lettori al 1519 e poi richiama eventi del passa­to, tra cui la sua scoperta della «giustizia di Dio». Tuttavia, secondo il con­senso generale degli studiosi di Lutero, la sua teologia della giustificazio­ne subì un cambiamento decisivo nel corso del 1515. Quando affiggeva le 95 Tesi, nell'ottobre del 1517, Lutero era già in possesso di quelle intuizio­ni su cui avrebbe costruito il suo programma di riforma.

 

[5] [Cit. da G. MIEGGE, Lutero. L'uomo e il pensiero fino alla Dieta di Worms, Torre Pelli­ce, Claudiana, 1946, pp. 129-130; rist.: Lutero giovane, Milano, Feltrinelli, 1964, 19753]. Il testo latino completo e la traduzione inglese si trovano in MCGRATH, Luther's Theology of the Cross, pp. 95-98. [Vedi anche J. ATKINSON, Lutero, la parola scatenata, Torino, Clau­diana, 19932, pp. 79-92].

 


(autore: Domenico Iannone)