IL 
  VANGELO DI MARCO
   Un'introduzione 
  Generale 
Il Titolo
Le prime attestazioni manoscritte concernenti il titolo di questo vangelo risalgono al IV° sec. (manoscritti detti: "Sinaitico" e "Vaticano"):
1) Il titolo "KATA MARKON" (secondo Marco) è attestato nei manoscritti Sinaitico e Vaticano, che come detto risalgono al IV° sec. pertanto è questo il titolo da ritenere "canonico".
1) Il titolo "EUAGGELION KATA MARKON" (Vangelo secondo Marco) è attestato nei manoscritti indicati dalle seguenti sigle e numeri arabi: A (V° sec.), D (V° sec.), L (VIII° sec.), W (V° sec.), Q (IX° sec.), f13 (gruppo di manoscritti : 13, 69, 124, 174, 230, 346, 543, 788, 826, 828, 983, 1689, 1709, ed altri), 1 (XII° sec.), Testo di Magg.(un gruppo cospicuo di manoscritti posteriori al sec. d.C.), versioni latine;
2) Il titolo "TO KATA MARKON AGION EUAGGELION" (Santo Vangelo secondo Marco) è attestato in: 209 (XIV° sec.), volgata sisto-cl, altri;
Le Fonti
La cosidetta "critica delle fonti", 
  cioè quella disciplina biblica che si occupa di stabilire l'origine e 
  la natura dei documenti, scritti ed orali utilizzati dagli scrittori biblici, 
  riteneva che il Vangelo attribuito a Marco fosse stato il primo, tra quelli 
  contenuti nel NT, ad essere stato scritto; a tale conclusione era giunto lo 
  studioso Carl Lachmann, fondandosi su di un dettagliato esame comparativo su 
  come il materiale comune ai tre vangeli sinottici è riprodotto, sezione per 
  sezione. 
  Tale analisi non portava alla considerazione che Mc. dovette essere utilizzato 
  come la fonte comune agli altri due vangeli (cioè Matteo e Luca), ma 
  che tutti e tre i vangeli erano derivati da una fonte comune che Marco aveva 
  utilizzato più strettamente. 
In generale, le conclusioni della critica delle fonti non ci permettono di affermare in maniera certa la priorità di un vangelo sull'altro. Infatti esse tralasciano di considerare la mole di testimonianze (scritte e orali) illustranti le opere e i detti del Cristo circolanti durante il I° sec. d.C. (vedi Luca 1:1 e Giovanni 20:30-31); le indubbie somiglianze tra i nostri vangeli canonici (per comprendere le quali si invocano tali "dipendenze") è probabilmente, dovuta a fonti comuni, tanto scritte quanto orali, che la chiesa ha omesso di conservare una volta che furono riconosciuti come autoritativi gli scritti che oggi conserviamo sotto il nome di Vangeli.
Gli unici risultati "certi" 
  della critica delle fonti sono 
  che Mt. e Mc. talvolta concordano a scapito di Lc., Mc. e Lc. più frequentemente 
  contro Mt., ma Mt. e Lc. mai contro 
  Mc. Per Agostino d'Ippona (circa 
  400 d.C.), il vangelo di Mc. era ricalcato su quello di Mt. ed un suo riassunto, 
  questo perchè Mt. era considerato il primo dei vangeli messo per iscritto sulla 
  base di due sue "caratteristiche": 1) affinità 
  di pensiero con l'AT, scritto ritenuto "fondamentale" dalla 
  chiesa primitiva, 2) paternità apostolica, 
  quella di Matteo l'ex pubblicano diventato apostolo. Agostino evidentemente 
  non dava molto credito alla testimonianza che riteneva Marco un discepolo di 
  Pietro e quindi a sua volta un membro della cerchia degli apostoli (a meno che 
  Agostino non conoscesse tale tradizione!). 
  Ma un confronto con il materiale biblico comune a Mc. e Mt. mostra che Mc. è 
  sempre più loquace di Mt., anzi le sezioni parallele sono meglio spiegabili 
  supponendo che Mt. condensi Mc. e non viceversa. 
Un pò di cifre!
Uno studio comparativo di Mc., Mt. e Lc. mostra che la "sostanza" di circa 606 dei 661 versi di Mc. (lasciamo fuori dal calcolo il brano di Mc.16:9-20) riappare in forma riassunta in Mt., mentre circa 350 versi riappaiono con cambiamenti marginali in Lc.
La cosa può altrimenti essere detta, affermando che dei circa 1068 versi di Mt., circa 500 contengono la "sostanza" di 606 versi di Marco, mentre dei 1149 versi di Lc. circa 380 trovano un parallelo in Mc.
Soltanto 31 versi di Mc. non trovano 
  alcun parallelo nè in Mt. nè in Lc.; Mt. e Lc. hanno un totale di 250 versi 
  contenente materiale che non possiede paralleli in Mc.; talvolta questo materiale 
  comune appare in Mt. e Lc. in un linguaggio praticamente identico, talvolta 
  invece la divergenza è considerevole.
  Circa 300 versi di Mt. non hanno paralleli negli altri vangeli , lo stesso è 
  vero di circa 550 versi di Lc. Inoltre Mt. e Lc. quando concordano, non lo fanno 
  mai "contro" la redazione di Mc., la quale a volte presenta delle varianti di 
  tipo sostanzialmente grammaticale o stilistico.
La cosidetta fonte Q.
Il materiale comune a Mc. e ad uno 
  o ad entrambi gli altri sinottici consiste principalmente di narrazioni (le 
  principali eccezioni sono le parabole di Mc.4 e il discorso escatologico di 
  Mc.13); invece il materiale non marciano comune a Mt. e Lc. consiste principalmente 
  di detti di Gesù.
  La critica ha designato il materiale non-marciano comune a Mt. e Lc. con la 
  sigla Q (dal tedesco Quelle, cioè "fonte"). Tale materiale comune 
  potrebbe appartenere effettivamente ad una fonte comune, oppure è possibile 
  ritenere che uno dei due evangelisti abbia attinto dall'altro, ma c'è anche 
  chi sulla base di personali speculazioni, ritiene che il livello di accordo 
  tra Matteo e Luca vari largamente all'interno della stessa fonte Q, e che bisognerebbe 
  pertanto postulare una varietà di fonti, alcune scritte altre orali, alcune 
  in greco, altre in aramaico, piuttosto che un unico documento scritto.
  In tutti i casi se un documento Q di tipo compatto è mai esistito, gli studiosi 
  ritengono che probabilmente Mt. ne abbia arrangiato il contenuto in modo tematico. 
  Tale considerazione, però, presuppone ciò che dovrebbe essere dimostrato, ossia 
  che il documento Q sia esistito in una forma ben precisa. Nostra opinione è 
  che tutte queste considerazioni non siano in linea di massima dimostrabili e 
  che pertanto siano destinate a rimanere piuttosto sterili! 
Paternità del Vangelo di Marco
 A proposito della paternità 
  del Vangelo di Marco, possediamo una testimonianza risalente alla prima metà 
  del 2° secolo, attribuita a Papia di Gerapoli, un contemporaneo di Giustino 
  Martire. Essa è contenuta nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea: 
  "Il presbitero (Giovanni) era solito affermare anche che. 
  essendo divenuto Marco l'interprete di Pietro (ermèneutès Petrou), mise per 
  iscritto con cura tutto quello che doveva essere ricordato, ma. comunque. non 
  con l'intento di produrre un resoconto ordinato (ou mentoi taxei), dei detti 
  e delle opere (è lexenta èpraxenta) del Signore. 
  Poichè egli non aveva nè ascoltato il Signore , nè era stato Suo discepolo; 
  ma più tardi, come io dissi, lui era stato discepolo di Pietro. Ora lui (Pietro) 
  era solito insegnare secondo le necessità (pros tas chreias) [dei suoi ascoltatori], 
  ma non come se stesse costruendo un ordinato sommario (suntaxis) dei detti (logikè) 
  del Signore. Così Marco non era in errore quando scriveva alcune cose (e non 
  un completo resoconto) come lui (Pietro?) le richiamava per loro. Perchè la 
  sua (di Marco?) unica cura fu questa, non tralasciare alcuna delle cose ascoltate, 
  e non falsificare alcuna di esse."
   E' molto probabile che la testimonianza di Papia appena citata, fosse 
  intesa a rispondere alle perplessità che la chiesa agli inizi del 2° sec. avvertiva 
  nei confronti del vamgelo di Marco, e che Eusebio riprendesse tale testimonianza 
  perchè le medesime perplessità continuavano ad essere espresse anche nella chiesa 
  del 4° sec.
  La natura di tali perplessità sembrerebbero avere avuto a che fare con: 1) la 
  concisione dello stile di Marco, 2) la sua brevità 
  rispetto agli altri evangeli (sinottici), 3) le variazioni rispetto 
  ai medesimi episodi riportati nei vangeli di Matteo e di Luca, 4) la sua presunta 
  poca accuratezza per gli aspetti cronologici del ministero del Signore. Papia 
  sembra rispondere in generale a tali obiezioni, affermando che il Vangelo di 
  Marco non è da intendersi come una fonte primaria di conoscenza 
  del Cristo, ma secondaria. Infatti, la sorgente 
  primaria era stata la predicazione di Pietro, tanto che Giustino Martire, nel 
  mezzo del 2° sec., a proposito di un brano contenuto nel vangelo di Marco, lo 
  attribuisce alle "Memorie" (apomnèmoneumata) di Pietro". Ciò non 
  deve far pensare che Giustino stia facendo riferimento a qualche scritto apocrifo 
  andato perduto ( cosa del tutto improbabile) bensì dimostra che egli riteneva 
  il vangelo di Marco totalmente fedele ai ricordi di Pietro.
 1) Secondo Papia, le 
  omissioni del vangelo erano dovute non a Marco, ma alla ricostruzione 
  offerta da Pietro. Marco ebbe cura di non omettere nulla di quanto ebbe modo 
  di ascoltare da Pietro, ma è certamente vero che diversamente da Luca, egli 
  si limitò a trascrivere la testimonianza della sola fonte petrina. Si spiega 
  in tal modo anche 2) la brevità dello scritto di 
  Marco, che però diventa prova della sua esattezza, ossia del desiderio di Marco 
  di non aggiungere nulla alla sua fonte; molto probabilmente è a tale brevità 
  che Marco deve il nomignolo di kolobodaktulos (dalle dita monche) che la chiesa 
  primitiva gli affibbiò. Papia ritiene 3) le variazioni 
  rispetto ai medesimi episodi riportati nei vangeli sinottici e 4) la presunta 
   inaccuratezza di Marco per gli aspetti cronologici 
  del ministero del Cristo come prove ulteriori del fatto che Marco non era stato 
  testimone oculare, e che si sarebbe attenuto in modo esclusivo alla sola fonte 
  petrina.
  Sempre secondo Papia, l'apostolo Pietro adattava la propria predicazione alla 
  necessità del momento (pros tas chreias) per cui la sua preoccupazione non era 
  quella di redigere un "vangelo" connettendo all'interno di una cronologia 
  tutti i suoi ricordi dell'attività terrena del Cristo, quanto piuttosto 
  quella di presentare ai propri uditori "materiale catechistico"; la suddetta 
  espressione (pros tas chreias) potrebbe, però, anche essere tecnica : in tale 
  case si starebbe allora affermando che Pietro faceva uso di chreia-forme, 
  che, nel linguaggio retorico greco, erano brevi discorsi, troppo sconnessi per 
  farne una narrazione o un compendio di insegnamenti. 
Qualche conclusione.
Secondo Papia, che riporta la testimonianza del Presbitero Giovanni, Marco fu l'interprete di Pietro, ora è chiaro che il termine non va interpretato come se significasse che Marco traduceva l'aramaico di Pietro per i suoi ascoltatori di lingua greca, Pietro era bilingue: fu infatti lui a portare l'evangelo ai Gentili (Atti 10, 11:18). E' invece probabile che il titolo attribuito a Marco di essere l "interprete di Pietro" (ermenèutes Petrou) vada inteso come "testimone della predicazione di Pietro", così come Pietro lo era stato di quella del Cristo.
Come tributo finale Papia sottolinea che pur essendo il vangelo di Marco uno scritto breve, esso non era nè monco, nè conteneva falsi insegnamenti. Eusebio afferma che Papia deliberatamente aveva preso le distanze da coloro che proponevano "comandamenti stranieri". C’è chi congettura che tale osservazione sia stata fatta per sottolineare la diffidenza di Papia nei confronti di un altro vangelo breve che circolava ai suoi tempi,forse il vangelo di Luca abbreviato dai tagli dell'eretico Marcione: costui era ben conosciuto nelle province d’Asia,dopo aver lasciato il Ponto nel 138 d.C.,Papia dovette confrontarsi con lui personalmente stando alla testimonianza del cosidetto prologo-Anti Marcionita al vangelo di Giovanni.
E'interessante la scelta 
  di parole fatte da Papia nella testimonianza citata da Eusebio. Le stesse parole 
  si ritrovano nel prologo del vangelo di Luca: anatakasthai, paredosan, parèkolouthèkoti, 
  akribus, kathekès. Tale corrispondenza linguistica solleva la questione di comprendere 
  se Luca abbia un debito con Papia per il proprio linguaggio o viceversa; probabilmente 
  è Papia ad utilizzare Luca.
  Riepilogando, sembra che il brano di Papia debba essere inteso nel seguente 
  modo:
1) Papia con il suo utilizzo del linguaggio lucano sembra stia affermando che il vangelo di Marco possiede tutte le credenziali attribuibili al vangelo di Luca in merito al quale non esistono dubbi.
2) Il vangelo di Luca è degno di rispetto essendo stato Luca discepolo di Paolo, nondimeno il vangelo di Marco è stato scritto da quel Marco discepolo (ermèneutès) di Pietro.
3) Luca nel "Prologo" del proprio vangelo dichiara di essersi informato sui fatti della vita del Cristo e di avere poi scritto accuratamente (akribus Luca 1:3), così ha fatto anche Marco, ne sono testimoni il presbitero Giovanni e gli altri presbiteri ai quali Papia fa riferimento.
4) Se Luca ha seguito (parakolouthein) dall’inizio la sequenza degli eventi del ministero di Gesù, scrivendo ogni cosa con ordine cronologico (kathekes), l’apparente mancanza di tale ordine in Marco può essere spiegata con la sua fedeltà al modo di insegnare di Pietro. Il vangelo di Marco è intenzionalmente breve, perchè esso riproduce solo quanto Marco aveva ascoltato da Pietro in occasione di predicazioni.
Il cosidetto "Prologo Anti-Marcionita" (circa 160-180 d.C.) Ireneo e Girolamo (che molto probabilmente era a conoscenza di una fonte alessandrina conosciuta anche da Origene e da Clemente Alessandrino) definiscono Marco: "interpres Petri", mentre Clemente Alessandrino citato da Eusebio, lo definisce "sectator Petri", seguace di Pietro.
Data di composizione del vangelo di Marco
Afferma Ireneo : "Matteo 
  fra gli ebrei, nella propria lingua di essi, produsse una scrittura di vangelo, 
  evangelizzando Pietro e Paolo in Roma e fondando la chiesa; quindi, dopo la 
  dipartita (exodon) di costoro, Marco, il discepolo e interprete (ermèneutes 
  ) di Pietro, ci trasmise anch’egli le cose predicate (kerussomena) da Pietro".
  L’utilizzo dell’inusuale termine "interprete" applicato a Marco ci 
  suggerisce l’ipotesi di una dipendenza di Ireneo dalla testimonianza di Papia. 
  Inoltre non diversamente da quest’ultimo viene affermato che il contenuto dello 
  scritto di Marco era fondato in maniera essenziale, dalla predicazione di Pietro.
 La tradizione afferma 
  che Pietro trovò la morte durante la persecuzione di Nerone del 64 d.C. Ireneo 
  afferma che solo dopo la dipartita (exodon) di 
  Pietro, Marco avrebbe fatto circolare il proprio vangelo. La critica filologica 
  recente si è molto concentrata sul significato del termine "exodon" negli scritti 
  di Ireneo, giungendo alla conclusione che egli utilizza sempre il termine "thanatos" 
  (o il latino: mors) per indicare la morte. 
  Ireneo concorda con altri storici della chiesa a proposito del fatto che Marco 
  scrisse il proprio vangelo mentre Pietro era ancora in vita. Infatti, Eusebio 
  afferma:"Ed essi (i credenti di Roma) dicono che l’apostolo, al quale lo 
  Spirito aveva rivelato che cosa doveva fare, fu contento del loro zelo e approvò 
  che questa scrittura fosse studiata dalla Chiesa". E’ dunque più 
  sicuro interpretare il termine exodos della testimonianza di Ireneo dando ad 
  esso il significato di "partenza per un viaggio". 
  
Il greco di Marco
Il greco del Vangelo di 
  Marco fa abbondante uso di "paratassi" (ad esempio Mc. 1:9-13). Questo 
  fatto, pur essendo tipico di chi ricorre a uno stile poco sofisticato, potrebbe 
  anche essere un riflesso della fonte semitica di Marco, cioè la predicazione 
  dell'apostolo Pietro.
  Il "presente storico" (2:15,17,18) un elemento ben noto del vivido 
  stile di Marco (esso ricorre normalmente all'inizio o quasi, di un paragrafo, 
  quando una nuova situazione è introdotta), potrebbe essere stato mediato dal 
  greco classico o volgare, ma certo potrebbe anche essere un' influenza dell'uso 
  aramaico delle sentenze partecipiali.
  Altri semitismi sono da rintracciarsi nel "presente perifrastico" 
  ("Lui sta mangiando" al posto del più comune in greco "lui mangia"). Tale pratica, 
  pur essendo documentata in greco, era molto frequente nell'aramaico (solo Luca 
  ha un'altissima proporzione di frasi con il presente perifrastico. Infatti il 
  suo stile cerca di imitare quello della LXX, mentre al contrario, Marco teneva 
  conto della parlata greco-aramaica di Pietro).
  L'ordine delle parole nelle frasi di Marco, frequentemente, riflette uno stile 
  semita: mentre è possibile in greco mettere il verbo all'inizio della frase 
  (specie con verbi indicanti il parlare), in semitico il verbo è posto regolarmente 
  all'inizio della frase. Quest'ultimo caso si verifica frequentemente in Marco.
  Il testo greco di Marco contiene un alto numero di latinismi derivanti: dalla 
  terminologia ufficiale o militare (praitorion 15:16, legion 5:9,15, kenturion 
  15:39,44, Kaisar, phragelloo 15:15, spekoulator 6:27, censo 12:14), dalla terminologia 
  commerciale (modios 4:21, denarion 6:37, kodrantes, sextarius 7:4) e da espressioni 
  idiomatiche greche e latine (to hikanon poiein 15:15, sumboulion edidoun 3:6, 
  verberibus eum acceperunt 14:65, satisfacere 15:15, genua ponere 15:19).
  La conclusione che si può ricavare dall'uso di tali latinismi non è, come alcuni 
  hanno suggerito, che Marco abbia traslato da uno scritto originariamente in 
  latino, ma che piuttosto egli ha riprodotto fedelmente il vernacolo in uso nell'ambito 
  dell'Impero romano. 
Connessione tra gli episodi del Vangelo di Marco
Il Vangelo di Marco, a dispetto delle affermazioni di alcuni teologi che lo considerano il risultato piuttosto maldestro di connettere insieme vari episodi dell’attività del Cristo, contiene un numero consistente di legami biografici e storici tra gli episodi.
Un esempio è la "casa" 
  di Pietro (e di Andrea suo fratello?) in Capernaum nella quale Gesù inizialmente 
  risiedette (1:29-33,35-36). In questa "casa" Gesù ritornava dopo le 
  sue peregrinazione (2:1, 3:19, [7:17?], 9:33). Evidentemente la casa di Pietro 
  divenne la sua casa e una base di operazione per il ministero in Galilea e nelle 
  regioni circostanti. Questa casa a Capernaum provvede un legame "storico-geografico" 
  per un numero di episodi che coprono più della metà del vangelo di Mc.
  Un ulteriore legame logico tra gli episodi è dato dai rapporti di Gesù con la 
  gente di Nazareth. Gesù lascia Nazareth per recarsi al Giordano a farsi battezzare 
  da Giovanni (1:9). Vi ritorna successivamente (Lc.4:16-30), vi ritorna ancora 
  dopo un consistente periodo di tempo e trova gli abitanti di Nazareth molto 
  scettici (Mc.6:2-4). Tale scetticismo non era una novità; già prima di allora 
  sua madre e i Suoi fratelli erano andati da Nazareth a Capernaum con il proposito 
  di "prelevarlo" convinti che fosse "fuori di senno" (Mc.3:21-35). 
  Quest’ultimo "legame" unisce 4 capitoli, sottolineando la consistente 
  miscredenza del popolo di Nazareth, includente i familiari del Cristo, in contrasto 
  con l’accoglienza degli abitanti di Capernaum testimoniata dalla diponibilità 
  di Pietro a concedere la propria casa al Maestro.